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Arredi Sacri

Le Immagini della Passione

Sono cinque statue lignee comunemente chiamate Misteri.

Esse, riproponendo visivamente i momenti dolorosi della Passione e Morte di Nostro Signore che il popolo medita fra i grani del Santo Rosario chiamandoli Misteri, ne assumono – in gruppo – la stessa valenza e lo stesso nome. La tradizione locale le vuole giunte da Venezia nella seconda metà del XVI secolo.

Si narra, infatti, che il nobile patrizio molfettese, Evangelista Lepore, in forte apprensione per la salute malferma del figlio Diomede, volle recarsi nella città lagunare in cerca di un medico. Giunto a Venezia, il Lepore si imbatté nella bottega dello scultore Giacomo Fielle nella quale, già realizzate, trovò le statue dei cinque Misteri.

Conquistato dal realismo scultoreo e dalla finezza dei lineamenti di quei simulacri, decise di portarli a Molfetta dove, appena tornato, apprese della repentina guarigione del figlio. Attribuendo lo straordinario evento alla fede che quelle statue avevano suscitato nel suo cuore, le donò all’Arconfraternita di Santo Stefano, cui era iscritto. Le statue raffigurano rispettivamente:

Cristo orante nel Getsemani
Cristo flagellato
Cristo deriso (o Ecce Homo)
Cristo carico della croce
Cristo morto.

Destinate forse – già ab origine – ad un uso processionale, le statue sono realizzate a grandezza naturale e con un realismo così intenso, quale traspare dalle espressioni del viso e dalle movenze del corpo, da renderle vere e proprie icone di una sofferenza indicibile ma composta e accettata che conferisce loro una drammaticità e una suggestione unica nel suo genere.

Purtroppo, al di là dell’affascinante leggenda cui ci si è aggrappati a motivo dei drappeggi delle vesti del Cristo – tutte damascate in oro zecchino quale fascinoso richiamo, nell’immaginario collettivo, ai fasti della Serenissima – non si sono, finora, rivenuti documenti che ci possano attestare, con sicurezza, né il luogo di provenienza, né gli artefici della committenza né, tantomeno, l’epoca certa dell’acquisizione da parte del Sodalizio confraternale. Per questo, gli storici locali hanno sciorinato le più diverse ipotesi e tentato le più disparate attribuzioni senza peraltro giungere a conclusioni accettabili.

Studi recenti, comunque, sono propensi ad attribuirle – pur restando ancora ignoto l’autore – alla scuola napoletana del secondo Cinquecento allorquando la diffusione delle risultanze del Concilio di Trento, sviluppa negli artisti una nuova concezione della rappresentazione iconografica che assurgendo alla sua massima espressione in Spagna, influenza e si radica nella tradizione scultorea lignea napoletana.



Cristo Orante nel Getsemani

Di tutto il gruppo, essa è l’unica a proporre due soggetti. La scena ripercorre il corrispettivo brano evangelico e ci presenta il Cristo, inginocchiato su una roccia affiorante dalla terra e con lo sguardo, implorante, rivolto al Cielo mentre un Angelo, seminascosto dalle fronde di un ulivo, a simbolo dell’intero Getsemani, Gli porge l’amaro calice del sacrificio.

Il popolo, sintetizzando, la chiama comunemente “Cristo all’orto” ed è una statua che si lascia apprezzare per alcune peculiarità che le altre non possiedono. Innanzitutto la veste che si ammira in tutta la sua interezza e che, mutuata dalle pieghe e dalle forme del corpo, ci trasmette un’idea di tessuto, damascato d’oro, così tangibile da sembrare vero.

Se poi, a questa, si aggiunge la particolarità di un albero che si riveste – in occasione della processione – di vere fronde di ulivo, cariche del loro frutto e l’espressività di un viso che sembra veramente immerso nella lacerante richiesta dell’importante concessione divina, il risultato che si ottiene diventa di un realismo impressionante. Il simulacro in questione, però, non è quello originale. Pur perfettamente integrato nel gruppo, del quale riproduce sia le colorazioni che le espressioni e le sembianze identiche del viso, fu rifatto, nel 1858, dal napoletano Gaetano La Rocca in sostituzione del precedente distrutto dal tarlo e dall’umidità.

In processione, la statua del Cristo all’orto è affidato ai portatori della Confraternita di Maria SS. Assunta in Cielo.



Cristo Flagellato

In vernacolo è comunemente chiamata “Cristo alla colonna” per la contemporanea presenza, insieme al Cristo, di una struttura che, se nel nome ne richiama una architettonica, nella fattispecie si rivela essere strumento di tortura.

È la seconda statua che appare in processione ed è quella che, più di tutte, rivela il talento artistico dell’ignoto artefice. Il Cristo è in posizione eretta, frustato, percosso e legato con le mani dietro la schiena all’anello metallico della colonna.

La scena ci porta a immaginarlo nel Pretorio, dove storicamente esisteva una colonna simile, usata per il medesimo scopo. L’espressione rassegnata del volto, lo sguardo fisso in un orizzonte sempre più lontano e la bocca semisocchiusa del Cristo, lasciano trasparire la sua cosciente, incondizionata accettazione della sofferenza quale mezzo per raggiungere la redenzione del mondo. La bellezza del simulacro, però, non è solo nella sua espressività. Molto di più emerge dall’osservazione della statua nella sua interezza laddove la sobria nudità di un corpo, coperto solo da una fascia damascata sui fianchi, rivela la perfetta conoscenza anatomica dello scultore.

La statua, processionalmente, è portata – a spalla – dagli iscritti alla Confraternita di Santa Maria del Buon Consiglio.



Cristo Deriso o Ecce Homo

Il Cristo coronato di spine, con il volto segnato da rivoli di sangue che scendono dalla fronte e una canna legata tra le mani, è la terza statua del gruppo. Ha lo stesso impianto della precedente e pur se il volto ricalca, nei lineamenti, quelli della altre statue a chiara indicazione di come l’autore abbia volutamente realizzato – quei volti – uguali per tutto il gruppo in modo da raggiungere l’effetto visivo di tanti fotogrammi messi uno accanto all’altro a formare un continuum temporale, questa statua non raggiunge – nel complesso – la stessa resa qualitativa delle altre.
Dalle spalle infatti, scende il manto damascato il quale, anche se raccolto nelle sue pieghe, non riesce a dare slancio alla figura. In più, si appiattisce sul retro e l’artista, nonostante si sforzi di presentare – anteriormente al manto – il corpo martoriato del Cristo, non raggiunge la medesima perfezione del precedente.

Per questo, la critica propende per una realizzazione fatta in compartecipazione: il volto e l’impianto generale, ad opera di un maestro e la rifinitura ad opera di un allievo.
Volgarmente è indicata come “Cristo alla canna” ed è affidata, in processione, agli affiliati alla Confraternita della Purificazione di Maria Santissima



Cristo Carico della Croce

E' la quarta “icona” del gruppo. Unitamente alle altre due che la precedono, forma la trilogia delle statue a corpo eretto mentre si accomuna al Cristo orante per la tunica damascata che la riveste interamente.

Straordinaria nella sua esecuzione plastica, raffigura il Salvatore che, piegato sotto il peso della croce, muove sulla via del Golgota. Al di là dell’espressione sofferta del viso che, l’autore ripropone con gli stessi lineamenti delle precedenti, tutto l’impianto scenico di questo simulacro si fonda sul complesso movimento del corpo.

Col busto sbilanciato in avanti e la gamba sinistra leggermente piegata e avanzata rispetto alla destra, la statua trasmette in modo superlativo, all’occhio dell’osservatore, la tipica posizione che assume colui che, dovendo spostare un peso superiore alle proprie forze e camminare allo stesso tempo, lo fa non con la sola forza delle braccia ma con tuta l’energia corporea. L’opera, infatti, si completa di una grande croce che poggia sulla spalla sinistra del Cristo e alla quale sono avvinte – a contrasto – le mani. Osservando la statua, si avverte – quasi epidermicamente – l’imminente caduta del Redentore sotto il peso di quella croce.

 In processione, è affidata alla Confraternita della Visitazione di Maria Santissima e il popolo, nella sua straordinaria capacità di sintesi, protesa all’espressione di un linguaggio essenziale, condensa in una sola parola tutta una serie di concettualità e la chiama semplicemente “Calvario”.



Cristo Morto

E' il simulacro che completa il ciclo e che, più di ogni altro, suscita commozione nell’animo del credente. Raffigura il Figlio di Dio esanime.

Il suo corpo, poggiato sul lenzuolo che diventerà – poi – la Sindone, giace ormai preda della morte. Iconograficamente, la statua ripropone il soggetto più caro agli artisti della seconda metà del Cinquecento allorquando il Concilio di Trento, volendo dare maggiore impulso all’Eucarestia, privilegiò l’idea del collegamento del sacrificio – in croce – del Redentore al sepolcro e, quest’ultimo, all’altare sul quale si ripete il sacrificio eucaristico.

 Tecnicamente, anche questa scultura presenta tracce nelle quali i critici, pur riconoscendo al simulacro uno straordinario effetto devozionale, esprimono la sensazione che li fa propendere per una esecuzione “a due mani”. A un sudario appena abbozzato nelle sue naturali piegature fa, da contrasto, la splendida armoniosità e perfezione di un corpo, serenamente adagiato nella fissità della morte. Austero nella compostezza della posa, mostra i lunghi capelli – che si intuiscono intrisi di sangue e di sudore – sparsi sul guanciale. Le braccia si abbandonano, morbidamente, lungo il corpo mentre le gambe, leggermente piegate, ci riportano alla sicura deformazione che devono aver subito supportando – sulla croce – il peso di un corpo che si accasciava su di loro. L’impianto scenico è, dunque, molto semplice. Eppure l’artista riesce a coniugare magnificamente la tecnica scultorea in suo possesso ad un’altra, pittorica, di indubbia valenza e ci presenta un’immagine finale di straordinario effetto visivo: il corpo di un Cristo minuziosamente eseguito in tutti i suoi particolari e disposto, con arguzia, su un piano inclinato in modo da dare – all’osservatore – la possibilità di ammirarlo totalmente. A questo espediente di innegabile effetto scenico si accomuna una tecnica pittorica così realistica nelle colorazioni da darci la sensazione di avere dinnanzi a noi un corpo quasi reale.

In processione, la statua, si mostra elegante e solenne e si arricchisce di una coltre intessuta di pregevoli ricami in oro, di sei raffinate lumiere argentee che la circondano e un artistico reliquiario, anch’esso in argento, contenente una reliquia della santa Croce. Il reliquiario, realizzato dallo scultore molfettese Giulio Cozzoli, trova posto ai piedi della statua. E’ il simulacro che più di tutti focalizza e concentra la genuina devozione popolare e che, per questa sua particolare peculiarità assurge a immagine simbolo di tutto il corteo processionale e della stessa Pasqua, ormai imminente. Il privilegio di portare per le vie della città, nel giorno del Venerdì Santo, la statua del Cristo morto è esclusivamente affidato ai confratelli dell’Arciconfraternita di Santo Stefano.

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Statua di Santo Stefano

La Statua, alta appena 120 centimetri trova la sua collocazione nella nicchia dell’altare maggiore.

Realizzata dallo scultore molfettese Giulio Cozzoli nel 1909, in sostituzione di una precedente del secolo XVII, raffigura il Protomartire giovanissimo, poco più che adolescente, in abiti da presbitero e con nelle mani i rotoli della Parola e la palma del martirio mentre, ai suoi piedi, giace un cumulo di pietre, causa della sua morte.

L’impianto statuario è molto semplice quasi a lasciarci supporre che, il tutto, sia stato realizzato con distacco accademico. Eppure ha il suo pregio nascosto: quello di coniugare la tradizione iconografica, che vuole il Santo giovanissimo, alla concezione del possesso da parte di Stefano di una dialettica ispirata e di una fede incrollabile che lo rendono – lui adolescente – un gigante della Fede.

Il Cozzoli riesce a fondere magnificamente questi due aspetti contrastanti e mentre ce lo rappresenta adolescente e quindi giovane anagraficamente, lo fa col volto rivolto al Cielo a lasciarci intendere la sua grande levatura morale e di come le sue parole e il suo fervore fossero di ispirazione divina.

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Dipinti

Madonna del Carmine, Arcangelo Raffaele e Tobiolo

Opera di Corrado Giaquinto

Siglata C.G. Romae , la tela è datata 1750 ed è di proprietà dell'Arciconfraternita. Dal 1973 è stata provvisoriamente depositata presso il Museo Diocesano al fine di salvaguardarla da eventuali furti. Raffigura il noto passo biblico di Tobia che, di ritorno a casa in compagnia dell'Arcangelo Raffaele, suo compagno di viaggio, cattura il pesce che lo aveva assalito per trarne, su suggerimento dell'Arcangelo, l'unguento che guarirà la cecità del padre. Sovrasta il tutto l'apparizione della Vergine del Carmelo il cui culto è presente all'interno della Chiesa di Santo Stefano già dal 1703, anno in cui Mons. degli Effetti lo menziona nella sua visita pastorale. L'impianto scenico della raffigurazione si presenta con la classica struttura piramidale nella quale sono incentrate le tre figure che formano il soggetto del dipinto. L'autore, dovendo soddisfare la committenza, si trova nella necessità di dover unire due diverse devozioni: quella per la Vergine del Carmelo e quella rivolta all'Angelo Custode. Pertanto, con mestiere, separa idealmente il registro inferiore del quadro da quello superiore mediante una nube che, nel suo distendersi trasversale, fa da supporto al gruppo divino il quale, contemporaneamente, si lega alle figure del registro inferiore mediante la direzionalità degli sguardi. La Vergine , infatti, è ritratta nel classico atteggiamento materno che estende, attraverso lo sguardo, a Tobia. A sinistra della tela, l'autore raffigura l'Arcangelo che, ricalcando i canoni previsti dalla Chiesa della Controriforma, esprime l'esemplarità del rapporto che deve intercorrere tra il buon cristiano e il suo angelo custode. Importante è notare come, la postura dell'Arcangelo ricalchi fedelmente sia quella dell'Arcangelo che indica l'opera compiuta da San Giovanni Calibita (tema di un altro dipinto, olio su tela del 1740, della collezione della Cattolica Popolare di Molfetta) sia quella dell'affresco della Chiesa di San Giovanni Calibita di Roma nel quale, lo stesso Arcangelo, illustra l'attività caritativa del Santo. Un ultimo accenno va dato al paesaggio collinare che si intravede, in lontananza, rischiarato da un sole che tramonta e ai segni che circondano le due figure in primo piano: il cane e i due bordoni da pellegrino, simbolo di un viaggio materiale che si fa, nel contesto dell'intera rappresentazione, spirituale.

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Tela della Madonna dei Martiri con Santi Donato ed Irene

Tutte le ricerche finora espletate nel tentativo di trovare documenti utili a fornirci indicazioni sulla committenza o suggerirci la possibile provenienza della tela sono risultati vani. Databile intorno alla seconda metà del XVIII secolo, per l’analogia dei colori, dei drappeggi e dell’impianto iconografico, viene attribuito a Nicola Porta (1710-1784), allievo di Corrado Giaquinto. L’impianto scenico presenta tre figure, delle quali, due a grandezza naturale nel registro inferiore e una, a semibusto, nella parte superiore. Le due figure, poste in primo piano, conferiscono un uno sviluppo verticale all’intera immagine iconografica, lasciando individuare, nel dipinto, tre sezioni ben distinte: la sezione inferiore, quella superiore e lo sfondo. Nella prima, a destra, è raffigurata Sant’Irene. La Santa è riconoscibile dai suoi simboli iconografici: la gola trafitta, cui si aggiungono – ai suoi piedi – un pugnale insanguinato (trasposizione della freccia che secondo la tradizione colpì Irene a morte trafiggendoLe – appunto – la gola) e la palma del martirio. A sinistra della tela, l’autore ritrae San Donato, rivestito dei classici paramenti e stringente, nella mano destra, il pastorale. Anche per Lui valgono i simboli iconografici che lo individuano e che puntualmente compaiono, ai suoi piedi: una scure insanguinata e la palma del martirio. I due Santi hanno il viso rivolto verso l’alto, in espressione di devota intercessione verso la Vergine Maria. E’ la terza figura che compare nel dipinto o, meglio, è il soggetto principale del gruppo che occupa il registro superiore del quadro. Infatti, in alto e al centro, compare la Madre del Salvatore che stringe a sé il Divino Bambino, alla cui guancia avvicina la Sua, quale indiscusso segno di affetto materno, mentre poggia la mano destra sul petto. Raffigurata a semibusto ed emergente da una nube, la Vergine, nel caso particolare di questa tela, è chiaramente ritratta come Madonna dei Martiri, protettrice della città. A connotarLa in questa veste, concorrono sia la positura (uguale all’icona che si venera nell’omonima Basilica molfettese) sia le colorazioni delle vesti nonché la presenza di due puttini i quali, a tergo della Vergine e ad ali spiegate, reggono un candido mantello, segno inconfondibile di regalità. A sinistra della nube e in basso, in corrispondenza della mano destra della Madonna, compaiono altri due cherubini. Tutti i soggetti raffigurati ricevono, da sinistra, la luce che li illumina quasi totalmente e che li evidenzia facendoli emergere nettamente sull’impianto scenico dello sfondo, adombrato di una oscurità generata dall’addensarsi, sulla città di Molfetta col suo inconfondibile Duomo, di nubi nere, pronte a scatenarsi nella furia degli elementi. Evidente, a questo punto, il significato di tutta la rappresentazione che appare finalizzato alla richiesta del costante aiuto celeste per la città di Molfetta, patrocinato da Sant’Irene e San Donato. La tela, è attualmente collocata sulla parete sinistra della Chiesa di Santo Stefano e sovrasta l’antico altare di San Donato, del quale si ha già notizia nelle visite pastorali di Mons. Bovio del 1604 e del 1614.

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Tela di San Marco

Le ipotesi più accreditate indicano nell’antica chiesetta di San Marco, eretta intorno al 1143 e – oggi – non più esistente, la probabile provenienza del dipinto. La chiesuola era stata edificata da un comunità veneziana stabilitasi a Molfetta a seguito dell’intensa politica egemonica e dei fittissimi traffici commerciali che la Serenissima svolgeva nell’Adriatico e nei porti nei quali aveva i suoi fondaci. Distrutta nel 1529 a seguito del Sacco di cui la città fu duramente sottoposta da parte dei Francesi, il dipinto fu conservato nella chiesa di Santo Stefano. Dalle risultanze degli ultimi restauri effettuati, l’opera sembra essere attribuibile ad un pittore locale, attivo nella prima metà del Seicento. Il dipinto raffigura San Marco, primo vescovo di Alessandria d’Egitto e martire della chiesa cristiana, divenuto patrono della città di Venezia nell’829, subito dopo la traslazione delle sue reliquie nella città lagunare. L’autore ha raffigurato il Santo assiso su una roccia, intento a scrivere il suo Vangelo. Ha lo sguardo rivolto al Cielo a chiara significazione di come le parole gli fossero ispirate dall’Alto ed è coperto solo da un manto che, mentre ci lascia intendere il travaglio eremitico cui Marco si è sottoposto prima di porre mano ai suoi scritti, s’apre sotto l’impeto di una folata di vento e ci lascia intravedere un corpo che, asciutto nella sua muscolatura, comincia a presentare i primi segni logoratori del tempo. Tecnicamente il disegno di sviluppa lungo una diagonale occupata dall’immagine del Santo che, col corpo e con la gamba destra distesa occupa quasi tutta la superficie della tela e si articola su due piani ai quali fanno da sfondo due quinte prospettiche. In primissimo piano si vede chiaramente il simbolo iconografico identificativo del Santo: il famoso leone che assurgerà a simbolo della Serenissima mentre la maggior parte della tela è incentrata sulla figura d’Evangelista. Questa è una delle poche raffigurazioni che lo vedono rappresentato così come compare nella tela molfettese. A completamento del dipinto ci sono le due quinte prospettiche che raffigurano entrambe un esteso boschetto le cui colorazioni, più marcate nella sezione più vicina, sfumano in quella di fondo fin quasi a confondersi col cielo soprastante.

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L’Organo

Opera di Pasquale de Rossi, fu realizzato nel 1827 ed è situato all’interno di una cantoria sita sulla porta principale. La cassa armonica è staccata dalla parete, consta di due parti ed è amovibile. La zona inferiore racchiude i mantici e la meccanica dei tiranti della pedaliera che consta di 8 tasti mentre, la parte superiore accoglie l’apparato fonico. Il prospetto presenta due campate a profilo piatto, delimitate da paraste scalanate che si completano con festoni ad intaglio ed una indoratura nella luce dei fornici. Completa il tutto una trabeazione modanata. Sulla facciata le canne sono sistemate in due gruppi di nove per cui nel complesso si ha 9 + 9 (18) formanti un’unica cuspide al principale Fa#2. Sono ovviamente presenti la tastiera e il registro, comandato da una serie di tiranti a pomello, disposti su due file. Restaurato nel 1963 ad opera della ditta Ruffatti di Padova presenta, allo stato attuale, il completo rifacimento della pedaliera.

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Bibliografia:

G.A. DEL VESCOVO, G. MAGARELLI, Affetti e tastiature. Fonti d’archivio e documentazione inedita su musici virtuosi, organari e organisti a Molfetta (sec. XVI-XIX), «Odegitria» VIII (2001), p. 383-385
Per il materiale fotografico si ringrazia il sig. Carlo Farinola

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